“Un
paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese
vuole dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante,
nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei
resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquilli….”
Dopo
aver letto queste parole ho deciso di tornare a casa, non so perché,
ero ben decisa a non rivedere mai più questi posti e tanto meno chi
ci vive, familiari compresi. Però mi si è mosso qualcosa dentro, le
ho lette e la gola mi si è stretta come quando devi buttare fuori
qualcosa in maniera talmente forte che vuoi piangere e gridare. Non
l’ho fatto, neanche questa volta, ho mandato giù il groppo con un
bicchiere d’acqua e sono andata a fare una passeggiata, poi sono
tornata e ho preso il biglietto del treno per il fine settimana. Ed
eccomi qui, sabato mattina in quell’Erto che avevo abbandonato, a
due passi da quella diga maledetta. Ma per me qui tutto è maledetto,
i negozi, le case, i prati: ricordi infami mi tornano alla mente,
dopo quasi 10 anni non è cambiato nulla, solo la mia vita eppure non
ho dimenticato.
Me
ne sono andata sbattendo la porta a 19 anni, i miei non volevano che
mi iscrivessi a lettere, non volevano che facessi la scrittrice,
credevano solo che volessi assomigliare a lui, quell’uomo strano
che ha scritto di questi boschi, che vive qui tra noi, che è uno di
noi, che va all’osteria e intaglia il legno, che non si fa trovare
dai giornalisti. Credevano che volessi essere come lui o come Tina
Merlin, qui conoscono solo loro due e pensano che siano dei pazzi.
–
Noi non siamo mica matti,–
mi diceva mio padre – hai tante di quelle cose da fare qui. Se non
vuoi lavorare la terra puoi andare a Longarone, cosa ti serve finire
a Padova.
Abbiamo
litigato tante, troppe volte, finché ho capito che non sarei
arrivata da nessuna parte e così, finita la maturità, ho fatto le
valigie. Una mattina sono scesa all’alba, come sempre, ma non ero
pronta per portare le vacche al pascolo, avevo i jeans e una canotta.
–
Dove devi
andare?
–
Me ne vado, la
mia vita non è questa!
–
E dove pensi di
andare?
–
A Padova!
–
Ancora questa
storia? – mio padre era furibondo – Cosa pensi di fare lì? Le
poco di buono vanno in città. Ti mangeranno.
–
Saprò
cavarmela, io non voglio fare la vostra fine, voglio un’altra vita.
Sentii
la guancia che pulsava e mi ritrovai piegata su me stessa, non avevo
neanche sentito la sua mano, solo la sua forza, i suoi calli che
graffiavano la pelle delle mie guance e la scalfivano.
Mi
toccai dove sentivo il dolore e poi lo guardai in faccia:
–
Addio!– dissi
salendo in camera.
–
Non durerai più
di due giorni!
Mia
madre piangeva, guardava e piangeva. Non ha mai fatto altro, mai
preso posizione. Mai una parola di conforto, né una contro mio
padre.
Uscii
da quella porta con la chiara convinzione che non sarei più tornata,
né mi sarei più fatta sentire, cosa di cui ero ancora convinta due
giorni fa.
Scesa
dall’autobus, mi avvio verso casa, su per quelle stradine di sassi,
nate per i carri e per le mandrie, non per le auto. L’odore è
rimasto uguale, mi fermo: sa di stalla e di prato, di tutte quelle
erbe spontanee che coprono i pascoli. Anche i rumori non sono
cambiati: le campane delle mucche in lontananza, gli uccelli che
fischiettano, le donne che parlano dalle finestre talmente vicine che
possono bere il caffè insieme rimanendo ognuna a casa propria.
Riparto, c’è solo un rumore che stona e che blocca tutti gli
altri, il mio trolley: non è fatto per la montagna, per il
ciottolato che contraddistingue quel vicolo; sento gli sguardi da
dietro le tende, non mi volto a guardare, non mi serve, vado avanti
verso il momento più difficile: bussare a mia madre. In casa
dovrebbe esserci solo lei, se c’è. Chissà, forse è morta o forse
si sono trasferiti. Non so nulla di loro.
Suono
il campanello, hanno ristrutturato gli infissi e tutta la casa ma il
nome ancora non c’è, qui non serve, tutti si conoscono.
Mi
apre la porta una bambina di circa sei anni, capelli castani e ricci
raccolti in una coda alta, le guance rosse di chi sta all’aria
aperta tutto il giorno. Mi guarda seria, non sorride. Io non parlo,
forse i miei si sono trasferiti veramente.
–
Nonna, nonna,
c’è una signora che ti assomiglia alla porta.
–
Arrivo subito!–
sento la voce di mia madre dalla cucina. L’ha chiamata nonna,
riguardo quella bimba e in effetti ha gli occhi chiari di mio
fratello, le labbra carnose di Lucia, la sua fidanzata di allora.
Mentre sto lì ad osservarla, non mi rendo conto che mia madre si è
avvicinata alla porta e mi sta fissando.
–
Ciao mamma. –
riesco a malapena a dirle con voce fioca.
La
piccolina mi guarda, la guarda, mi riguarda: – Nonna, perché ti ha
chiamato mamma?
Mia
madre scrolla la testa, come se improvvisamente fosse tornata alla
realtà grazie a questa vocina.
–
Lei è la zia
della foto che ho in camera, te la ricordi?
–
Zia Sandra? –
chiede incredula, guardando la nonna e poi me e poi di nuovo lei.
Alla fine si decide e mi abbraccia – che bello zia, benvenuta!
Nessun
bimbo mi aveva abbracciato prima, le appoggio una mano sulla schiena
ma capisce che c’è qualcosa di strano, si allontana, mi guarda, mi
prende la mano: – Vieni, entra, devo raccontarti un sacco di cose,
tranquilla, non ti abbraccio più. Nonna, dai, falle il caffè.
La
piccola mi trascina dentro, la seguo e mia madre fa strada verso la
cucina. Non mi ha ancora rivolto la parola.
Ѐ
tutto cambiato, la vecchia cucina non c’è più, ora ne hanno una
marrone in perfetto stile montagna.
–
Io sono
Elisabetta e sono la figlia di tuo fratello Giovanni e di mamma. Il
nonno dice sempre che sei morta, ma io non ci credevo, anche perché
la nonna mi diceva che saresti tornata. Vedi nonna, avevi ragione!
–
Eh già,–
sono le prime parole che mia madre pronuncia sedendosi di fronte a me
preparando la tazzina per il caffè. – Come stai?
–
Bene. – le
rispondo con un sorriso lieve – qui avete cambiato tanto.
–
Quando tuo
fratello si è sposato, abbiamo risistemato un po’ tutto.
–
Eh sì, noi
abitiamo di sopra. – risponde Elisabetta – ma ora non posso
portarti perché i miei fratellini dormono.
–
I tuoi
fratellini?– chiedo incredula
–
Sì, Mattia ha
quattro anni e Silvia e Francesco due, sono gemelli! E i tuoi bambini
dove sono?
–
Ehm...io non ho
bambini.
–
Ah no? E
perché?
Non
so cosa rispondere, in fin dei conti non c’è un vero motivo per il
quale io e Alberto non abbiamo ancora pensato ad avere figli.
–
Elisabetta non
si fanno queste domande. – interviene mia madre.
–
Scusa! – dice
la piccola guardandomi con gli occhi pieni di vergogna.
–
Non ti
preoccupare. In realtà non c’è un vero motivo, stiamo solo
aspettando.
–
Ma hai il
moroso?
–
Certo, si
chiama Alberto e ha l’età del tuo papà.
–
E non avete
ancora bambini?
Questa
cosa sconvolgeva quella piccola più di qualsiasi altra notizia,
neanche che una zia morta avesse bussato alla porta era più tremendo
del fatto che a trent’anni non avessi ancora figli.
Dal
piano di sopra si iniziano a sentire degli strilli.
Mia
madre versa il caffè nelle tazzine e poi scompare sulle scale.
–
Si sono
svegliati, vedrai sono terribili.
–
Davvero?
–
Sì, sì!
Proprio tremendi.
Sorrido,
quella bambina sembra fin troppo sveglia per la sua età. Assomiglia
tantissimo a sua madre e così decido di chiederle della sua
famiglia, anzi della nostra famiglia.
–
Mamma e papà
dove sono adesso?
–
Papà è con il
nonno al pascolo, fra poco tornano. Mamma è al negozio, lavora con
sua sorella, vendono le cose di legno per i turisti, fra poco torna
anche lei. Mangiamo tutti assieme e così ti vedranno.
–
Eh, non so se
posso mangiare qui!
–
Certo che puoi,
abitavi qui, poi dobbiamo far vedere al nonno che sei viva, non ci
crederà.
Era
la cosa che mi spaventava di più ma a Elisabetta non potevo dirlo.
–
Magari vengo
solo a bere il caffè.
–
No, fermati per
pranzo. Mi fa piacere e anche tuo fratello sarà felice di vederti. –
dice mia madre tornando in cucina con un bimbo in braccio e due che
la seguono
–
Ciao, – li
saluto e loro ricambiano con la mano – e papà? Sei sicura che a
lui vada bene?
–
Tranquilla zia,
quando lo sento vado a dirglielo io così non sviene se ti vede! Lo
so che i morti fanno paura, ma tu non sei morta.
–
Vai a prendere
il pane con la zia, Elisabetta? – chiede mia madre guardandomi.
Ritorniamo
fuori, per quelle vie strette, giù di nuovo e poi subito a sinistra.
Eccolo il panificio, sempre uguale. Non mi riconoscono, ma Elisabetta
racconta a tutto chi sono, mi guardano straniti e mi salutano. Mi
rendo conto che questi anni mi devono aver cambiata o forse, per
tutti, io ero morta. In fin dei conti avevo rinnegato loro e questa
terra.
Ritorniamo
a casa, Elisabetta mi stav raccontando di quello che combinano i
suoi fratelli, aprendo la porta sentiole voci di due uomini, mi
affaccio alla porta della cucina piano, la piccola è davanti a me,
corre in braccio al nonno urlando festosa:
–
Nonno, nonno
guarda, la zia è viva. Guarda che bella che è!
I
suoi occhi incrociarono i miei, erano più stanchi di dieci anni fa e
meno arrabbiati. Non parla, mi viene incontro e mi abbraccia.