sabato 6 ottobre 2018

Ritorno a Erto capitolo 2


Stretta tra quelle braccia ancora così forti fatico a pensare, non me lo aspettavo, non è da lui.
Mentre la mia mente vaga su questi pensieri, si stacca e mi guarda, non sappiamo cosa dire, per fortuna interviene Giovanni:
Sei sempre bella uguale sorellina! – mi dice mentre si fa spazio tra me e papà e mi abbraccia pure lui. Non sono abituata a tutti questi gesti di affetto in generale, meno ancora da loro. Mio padre non mi aveva mai stretto e mio fratello tendenzialmente mi pizzicava per dimostrarmi quanto bene mi volesse ma erano passati tanti anni e per loro, come ha detto Elisabetta io ero morta.
Venite, è pronto, sedetevi!– mia madre ci chiama a tavola ed Elisabetta riprende il centro della scena.
Zia, ma tu dove vivi? In cielo?
Sorrido: – No, vivo in una città un po’ distante da qui ma neanche troppo, si chiama Padova.
In una città? Ma di quelle con i palazzi grandi e tante macchine che corrono? Come Belluno?
Mi sa che ha molti più palazzi e più auto di Belluno!
E hai il giardino grande, grande come il nostro qui dietro? – Chiede indicando il vetro che ha dietro la schiena.
No, vivo in un appartamento, ho solo un piccolo terrazzo!
Non hai il giardino?– sembra sconvolta ma proprio in quel momento sento la porta aprirsi – È la mamma, aspetta che vado a dirle che non svenga!
Sento la piccola bisbigliare, poi vedo il volto di Lucia comparire sulla porta pallido:
Allora è vero!
Già!– le dico alzandomi e dandole due baci sulle guance. Non riesce a dire molto e i piccoli richiamano la sua attenzione, si dirige verso di loro continuando a fissarmi. Torno a sedermi e continuo a mangiare, neanche i piatti di mia madre sono cambiati, buoni come allora e adesso che ho imparato a cucinare li amo ancor di più perché ho capito quanta fatica e impegno servono.
Il pranzo prosegue tranquillo, mi raccontano come va la vita lassù e cosa fa Lucia, mio padre non parla finché non arriva il dolce, ormai deve tornare alla stalla.
Quanto ti fermi? – mi chiede a bruciapelo.
Non lo so, forse qualche giorno!– rispondo sincera, alla fine non ci avevo pensato.
Dove dormi?
Il mio silenzio fa capire che non ho pensato a nulla.
Di sopra, nella camera di Elisabetta!– risponde Lucia
Siiiiiii, che bello! – esulta la piccola.
Non vorrei disturbare. – cerco di obiettare ma penso che la mia sia più paura di rimanere lì.
No zia, ci sono due letti, staremo benissimo! – si alza mi prende la mano e mi trascina su per le scale.
Sospiro mentre mi mostra la camera, era la mia, un groppo mi sale in gola, la tensione degli ultimi anni in quella stanza si fa sentire, come se non fosse cambiato nulla eppure è tutto diverso, per la prima volta penso che non so se ho fatto bene a venire né soprattutto a rimanere, mi siedo sul letto che Elisabetta mi concede e penso che non ho bisogno di sentire Alberto ma il telefono è nella borsa che ho lasciato al piano di sotto.
Elisabetta, vado a prendermi la borsa e la valigia ok?
Va bene, poi però ti mostro tutta la casa, è bellissima.
Le faccio un cenno del capo, lei non sa quanto sia difficile per me rivedere quelle mura, non può saperlo. Espiro mentre esco dalla stanza chiudendo la porta.
Difficile vero? sobbalzo nel sentire la voce di mio fratello, non mi ero accorta di lui. Scusa, non volevo spaventarti, ho pensato di portarti valigia e borsa.
Grazie, stavo proprio scendendo a prenderle. È strano rientrare in questa camera, non ero molto felice quando l’ho lasciata e anche se è completamente diversa...mi ricorda ancora troppe cose.
Muove appena la testa, lui non parla mai molto e anche adesso chiaramente non sa cosa dire, non fanno per lui questi discorsi, almeno in questo non è cambiato. Mi passa le mie cose.
Noi andiamo a lavorare, Lucia è a casa fino alle quattro anche se adesso sta cercando di addormentare i bambini, comunque c’è mamma se hai bisogno di qualcosa!
E io… si sente una voce da dentro la camera.
Certo, ed Elisabetta!
Sorridiamo!
Grazie, Elisabetta è una bravissima padrona di casa!
Spero solo che non ti disturbi troppo, è un po’ invadente!mi dice sottovoce.
Rido. Il telefono suona nella borsa, mi scuso e lo prendo. Alberto.

venerdì 5 ottobre 2018

Ritorno a Erto



“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuole dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquilli….”

Dopo aver letto queste parole ho deciso di tornare a casa, non so perché, ero ben decisa a non rivedere mai più questi posti e tanto meno chi ci vive, familiari compresi. Però mi si è mosso qualcosa dentro, le ho lette e la gola mi si è stretta come quando devi buttare fuori qualcosa in maniera talmente forte che vuoi piangere e gridare. Non l’ho fatto, neanche questa volta, ho mandato giù il groppo con un bicchiere d’acqua e sono andata a fare una passeggiata, poi sono tornata e ho preso il biglietto del treno per il fine settimana. Ed eccomi qui, sabato mattina in quell’Erto che avevo abbandonato, a due passi da quella diga maledetta. Ma per me qui tutto è maledetto, i negozi, le case, i prati: ricordi infami mi tornano alla mente, dopo quasi 10 anni non è cambiato nulla, solo la mia vita eppure non ho dimenticato.
Me ne sono andata sbattendo la porta a 19 anni, i miei non volevano che mi iscrivessi a lettere, non volevano che facessi la scrittrice, credevano solo che volessi assomigliare a lui, quell’uomo strano che ha scritto di questi boschi, che vive qui tra noi, che è uno di noi, che va all’osteria e intaglia il legno, che non si fa trovare dai giornalisti. Credevano che volessi essere come lui o come Tina Merlin, qui conoscono solo loro due e pensano che siano dei pazzi.
– Noi non siamo mica matti,– mi diceva mio padre – hai tante di quelle cose da fare qui. Se non vuoi lavorare la terra puoi andare a Longarone, cosa ti serve finire a Padova.
Abbiamo litigato tante, troppe volte, finché ho capito che non sarei arrivata da nessuna parte e così, finita la maturità, ho fatto le valigie. Una mattina sono scesa all’alba, come sempre, ma non ero pronta per portare le vacche al pascolo, avevo i jeans e una canotta.
Dove devi andare?
Me ne vado, la mia vita non è questa!
E dove pensi di andare?
A Padova!
Ancora questa storia? – mio padre era furibondo – Cosa pensi di fare lì? Le poco di buono vanno in città. Ti mangeranno.
Saprò cavarmela, io non voglio fare la vostra fine, voglio un’altra vita.
Sentii la guancia che pulsava e mi ritrovai piegata su me stessa, non avevo neanche sentito la sua mano, solo la sua forza, i suoi calli che graffiavano la pelle delle mie guance e la scalfivano.
Mi toccai dove sentivo il dolore e poi lo guardai in faccia:
Addio!– dissi salendo in camera.
Non durerai più di due giorni!
Mia madre piangeva, guardava e piangeva. Non ha mai fatto altro, mai preso posizione. Mai una parola di conforto, né una contro mio padre.
Uscii da quella porta con la chiara convinzione che non sarei più tornata, né mi sarei più fatta sentire, cosa di cui ero ancora convinta due giorni fa.

Scesa dall’autobus, mi avvio verso casa, su per quelle stradine di sassi, nate per i carri e per le mandrie, non per le auto. L’odore è rimasto uguale, mi fermo: sa di stalla e di prato, di tutte quelle erbe spontanee che coprono i pascoli. Anche i rumori non sono cambiati: le campane delle mucche in lontananza, gli uccelli che fischiettano, le donne che parlano dalle finestre talmente vicine che possono bere il caffè insieme rimanendo ognuna a casa propria. Riparto, c’è solo un rumore che stona e che blocca tutti gli altri, il mio trolley: non è fatto per la montagna, per il ciottolato che contraddistingue quel vicolo; sento gli sguardi da dietro le tende, non mi volto a guardare, non mi serve, vado avanti verso il momento più difficile: bussare a mia madre. In casa dovrebbe esserci solo lei, se c’è. Chissà, forse è morta o forse si sono trasferiti. Non so nulla di loro.
Suono il campanello, hanno ristrutturato gli infissi e tutta la casa ma il nome ancora non c’è, qui non serve, tutti si conoscono.
Mi apre la porta una bambina di circa sei anni, capelli castani e ricci raccolti in una coda alta, le guance rosse di chi sta all’aria aperta tutto il giorno. Mi guarda seria, non sorride. Io non parlo, forse i miei si sono trasferiti veramente.
Nonna, nonna, c’è una signora che ti assomiglia alla porta.
Arrivo subito!– sento la voce di mia madre dalla cucina. L’ha chiamata nonna, riguardo quella bimba e in effetti ha gli occhi chiari di mio fratello, le labbra carnose di Lucia, la sua fidanzata di allora. Mentre sto lì ad osservarla, non mi rendo conto che mia madre si è avvicinata alla porta e mi sta fissando.
Ciao mamma. – riesco a malapena a dirle con voce fioca.
La piccolina mi guarda, la guarda, mi riguarda: – Nonna, perché ti ha chiamato mamma?
Mia madre scrolla la testa, come se improvvisamente fosse tornata alla realtà grazie a questa vocina.
Lei è la zia della foto che ho in camera, te la ricordi?
Zia Sandra? – chiede incredula, guardando la nonna e poi me e poi di nuovo lei. Alla fine si decide e mi abbraccia – che bello zia, benvenuta!
Nessun bimbo mi aveva abbracciato prima, le appoggio una mano sulla schiena ma capisce che c’è qualcosa di strano, si allontana, mi guarda, mi prende la mano: – Vieni, entra, devo raccontarti un sacco di cose, tranquilla, non ti abbraccio più. Nonna, dai, falle il caffè.
La piccola mi trascina dentro, la seguo e mia madre fa strada verso la cucina. Non mi ha ancora rivolto la parola.
Ѐ tutto cambiato, la vecchia cucina non c’è più, ora ne hanno una marrone in perfetto stile montagna.
Io sono Elisabetta e sono la figlia di tuo fratello Giovanni e di mamma. Il nonno dice sempre che sei morta, ma io non ci credevo, anche perché la nonna mi diceva che saresti tornata. Vedi nonna, avevi ragione!
Eh già,– sono le prime parole che mia madre pronuncia sedendosi di fronte a me preparando la tazzina per il caffè. – Come stai?
Bene. – le rispondo con un sorriso lieve – qui avete cambiato tanto.
Quando tuo fratello si è sposato, abbiamo risistemato un po’ tutto.
Eh sì, noi abitiamo di sopra. – risponde Elisabetta – ma ora non posso portarti perché i miei fratellini dormono.
I tuoi fratellini?– chiedo incredula
Sì, Mattia ha quattro anni e Silvia e Francesco due, sono gemelli! E i tuoi bambini dove sono?
Ehm...io non ho bambini.
Ah no? E perché?
Non so cosa rispondere, in fin dei conti non c’è un vero motivo per il quale io e Alberto non abbiamo ancora pensato ad avere figli.
Elisabetta non si fanno queste domande. – interviene mia madre.
Scusa! – dice la piccola guardandomi con gli occhi pieni di vergogna.
Non ti preoccupare. In realtà non c’è un vero motivo, stiamo solo aspettando.
Ma hai il moroso?
Certo, si chiama Alberto e ha l’età del tuo papà.
E non avete ancora bambini?
Questa cosa sconvolgeva quella piccola più di qualsiasi altra notizia, neanche che una zia morta avesse bussato alla porta era più tremendo del fatto che a trent’anni non avessi ancora figli.
Dal piano di sopra si iniziano a sentire degli strilli.
Mia madre versa il caffè nelle tazzine e poi scompare sulle scale.
Si sono svegliati, vedrai sono terribili.
Davvero?
Sì, sì! Proprio tremendi.
Sorrido, quella bambina sembra fin troppo sveglia per la sua età. Assomiglia tantissimo a sua madre e così decido di chiederle della sua famiglia, anzi della nostra famiglia.
Mamma e papà dove sono adesso?
Papà è con il nonno al pascolo, fra poco tornano. Mamma è al negozio, lavora con sua sorella, vendono le cose di legno per i turisti, fra poco torna anche lei. Mangiamo tutti assieme e così ti vedranno.
Eh, non so se posso mangiare qui!
Certo che puoi, abitavi qui, poi dobbiamo far vedere al nonno che sei viva, non ci crederà.
Era la cosa che mi spaventava di più ma a Elisabetta non potevo dirlo.
Magari vengo solo a bere il caffè.
No, fermati per pranzo. Mi fa piacere e anche tuo fratello sarà felice di vederti. – dice mia madre tornando in cucina con un bimbo in braccio e due che la seguono
Ciao, – li saluto e loro ricambiano con la mano – e papà? Sei sicura che a lui vada bene?
Tranquilla zia, quando lo sento vado a dirglielo io così non sviene se ti vede! Lo so che i morti fanno paura, ma tu non sei morta.
Vai a prendere il pane con la zia, Elisabetta? – chiede mia madre guardandomi.
Ritorniamo fuori, per quelle vie strette, giù di nuovo e poi subito a sinistra. Eccolo il panificio, sempre uguale. Non mi riconoscono, ma Elisabetta racconta a tutto chi sono, mi guardano straniti e mi salutano. Mi rendo conto che questi anni mi devono aver cambiata o forse, per tutti, io ero morta. In fin dei conti avevo rinnegato loro e questa terra.
Ritorniamo a casa, Elisabetta mi stav raccontando di quello che combinano i suoi fratelli, aprendo la porta sentiole voci di due uomini, mi affaccio alla porta della cucina piano, la piccola è davanti a me, corre in braccio al nonno urlando festosa:
Nonno, nonno guarda, la zia è viva. Guarda che bella che è!
I suoi occhi incrociarono i miei, erano più stanchi di dieci anni fa e meno arrabbiati. Non parla, mi viene incontro e mi abbraccia.

giovedì 4 ottobre 2018

L'estate in un post: tra calcetti e preadolescenza

Quattro lunghissimi mesi: mettersi davanti al pc e pensare che scrivere sul proprio blog sia più importante di: pulire, lavare, cucinare, giocare con le figlie, leggere l'ultimo romanzo iniziato, parlare con il marito e soprattutto dormire...beh  è proprio difficile eppure gli spunti in questo periodo sono stati proprio tanti e quindi riassumo. Ma come questa estate ho capito che sto per entrare in due vortici contemporaneamente: quello dei pannolini e delle poppate e quello della preadolescenza. La domanda che mi sorge spontanea è? Ne uscirò viva? Non credo visto che la preadolescenza comincia ora e ben che vada finirò il terribile periodo fra 20 anni (perché poi spero che anche l'ultima sia abbastanza matura e abbia superato ogni fase ormonale o al massimo a quell'età posso sbatterla fuori di casa senza incorrere in qualche pena)
Ma andiamo per ambiti:
1 - LAVORI DI CASA OFF LIMITS: tutto è iniziato con un:
- Metti due piatti in lavastoviglie per piacere!
Risposta: Uffa!
Qui si è scatenato l'inferno, i ricci da pseudo angioletto del padre di famiglia si sono rivelati in tutto il loro ardore e questo non aveva nulla di sensuale. Una bomba atomica a confronto fa meno danni e Kim Jong- un potrebbe sembrare perfino un santo. Così la pausa pranzo si è conclusa nel peggiore dei modi:
La figlia 'uffa' in lacrime;
La figlia per pra minore che faceva finta di non esserci;
Io che chiaramente alzavo i toni, perché ogni volta che una figlia sbaglia, immancabilmente è colpa della madre che però non ammetterebbe e io in particolare neanche un decimo delle mie colpe in materia di educazione ( in pratica sono mie quando si comportano bene, per il resto, chiaramente hanno preso dal papà).
In ogni caso comunque quell'uffa aveva rotto anche me e così appena lo tsunami se ne è tornato incazzoso al lavoro, ho fatto sentire la mia campana e il pomeriggio è stato un inferno: pulizie, compiti, strumenti musicali...alle 18 tutto era in ordine, tutto eseguito e io stavo solo sperando che la scuola cominciasse il prima possibile, l'estate e il caldo quest'anno sono stati troppo lunghi.

2- ABBIGLIAMENTO, I MALEDETTI SHORTS: le mie figlie si vestono più o meno come vogliono, ho smesso di litigare per l'abbigliamento già qualche anno fa, fortunatamente tendono a non mettersi cose improponibili e quindi, lasciando qualche piccola libertà creativa, il look è sopportabile.
Ma, c'è sempre un ma, d'estate è più dura perchè è iniziato il periodo shorts (come comprendere che la preadolescenza inizia prima dei 10 anni, porca miseria, almeno aspettare le medie, no?)
e io mi sono vista trasformata in una mamma sempre con la gonna sotto il ginocchio, il grembiule in cucina e la crocchia in testa mentre dicevo:
- Tira giù quei pantaloni!
- Si vede il segno del sedere, tira giù!
- Non è educato, tira giù!
e altre mille varianti insieme al fatto di averle fisicamente abbassato l'orlo dei pantaloni ad una misura quantomeno decente.
A un certo punto mi sono decisa a farle un discorsetto, cioè ci ho messo giorni per decidermi perché è ancora così piccola e come cavolo gliele spiego certe cose? Così l'ho presa un po' alla larga, parlando dell'importanza di coprire un po' per avere più rispetto di sè e più educazione anche nei confronti di chi si incontra nei luoghi pubblici e bla, bla, bla.
Facevo questo discorso e pensavo: " Proprio io che sono vissuta ( e vivrei anche ora escluso il momento pancia) con minigonne e canotte scollate? ok, non mi pare si vedesse il segno delle chiappe (ma non ci giurerei) però non ero poi così coperta, effettivamente avevo qualche anno in più (neanche tanti) però nessun maschio mi si è mai avvicinato troppo quindi insomma l'abbigliamento poteva andare, almeno cerco di convincermi ma in realtà mi rendo conto che sto invecchiando e che quella è mia figlia e fa paura metterla in un mondo senza sapere se veramente riuscirà a tenere a bada gli ormoni propri e altrui.

3 CALCETTI:CAPIAMO SUBITO CHI COMANDA. Finalmente tutti a letto, niente litigi fra sorelle, niente richiesto, silenzio. Escluso qualche urlo da cimice. E' tempo di concentrarsi sulla propria pancia che cresce a vista d'occhio e soprattutto si fa sentire, giusto per far capire che c'è qualcuno dentro e quel qualcuno ha già il suo bel caratterino. Sono passata dal ?oh Dio, perché non la sento ancora' al 'Puoi stare ferma almeno dieci minuti di seguito?'
Mi giro verso sinistra, sistemo il cuscino nel tentativo di trovare una posizione decente in cui poter dormire ma 'pam pam pam' comincia la danza, a qualcuno quella posizione non piace.
Mi metto a pancia in sù, i poveri polmoni sotto il peso dell'utero non vogliono lavorare troppo.
Mi giro verso sinistra, ci metto altri 10 minuti per sistemare il cuscino e finalmente posso dormire...almeno finché non mi scappa la pipì, mi alzo e qualcuno tira pugni, la vescica piena la infastidisce (vi assicuro che pugno su vescica piena è proprio fastidioso e deconcentrante), anche lo stomaco pieno non piace e scalcia. Ok, riaddormentarmi diventa un impresa.
Ma il bello deve ancora venire, sono al bar, seduta, La sorella per ora ancora minore mi si appoggia sopra per abbracciarmi, qualcuno dentro assesta due calci, la sorella ancora minore dice 'ahi' e si alza. La pancia torna tranquilla, doveva giusto far capire l'importanza dello spazio vitale. Se questo è il carattere adesso, non immagino dopo. C'è chi dice che i maschi sono peggio ma talvolta mi chiedo cosa possa essere peggio di queste tre femminucce già molto 'girl power' talvolta troppo.